Il sistema integrato di protezione sociale: come e perché salario e reddito minimo possono essere complementari

Le osservazioni che sono state pubblicate, a firma Esteban Rojo, alle Brevi note su reddito di cittadinanza e lavoro povero, che ho scritto lo scorso 14 luglio, sono senz’altro interessanti e meritano pertanto una risposta articolata e ragionata.

Preliminarmente, credo sia bene intendersi su alcuni aspetti della tematica in oggetto che, in uno scritto assai sintetico come quello precedente, possono essere rimasti sotto traccia. Ho voluto dunque chiarire, stavolta, sin dal titolo, i termini della questione, per come – a mio avviso – andrebbe impostata, se si vuole provare efficacemente ad arginare il pensiero unico aziendalista, che fa gli interessi della sola minoranza più ricca e potente del Paese, provando invece a realizzare finalmente una politica che operi e si adoperi strutturalmente e dichiaratamente «a favore delle classi subalterne».

Il sistema integrato di protezione sociale, che ho solo brevemente tratteggiato nell’articolo precedente, in sostanza a questo serve: a mettere il settore pubblico al servizio di quella che è la parte strutturalmente debole nel rapporto di lavoro.

Chi tutela il lavoratore, in sede di assunzione, quando il datore di lavoro gli dice: queste sono le condizioni, se non ti stanno bene, quella è la porta? E chi tutela la persona che, dopo essere stata assunta, si vede ulteriormente peggiorare le condizioni di lavoro e il trattamento economico, sempre a causa dello stesso viscido strumento, noto da sempre – anche se sempre meno se ne discute – col termine efficacissimo di ricatto occupazionale? Chi tutela, insomma, tutte quelle persone che cercano di preservare la propria dignità, ma inevitabilmente, a un certo punto, debbono chinare il capo, perché o così o niente?

La complementarità tra salario e reddito minimo svolge esattamente questa funzione sociale: offre protezione alla parte debole del rapporto di lavoro, depotenziando l’efficacia del meccanismo di ricatto occupazionale.

L’art 36 della Costituzione, nel primo comma, ci dà l’equivalente concettuale di quel diritto alla ricerca della felicità (pursuit of happiness) che si ritrova nella Dichiarazione di Indipendenza statunitense del 1776 e successivamente, per traslato postbellico, nelle Costituzioni di Giappone e Corea del Sud. Mutatis mutandis, in questo campo semantico, possiamo far rientrare anche il diritto al Buen Vivir che, ancor più di recente, è stato sancito nelle Costituzioni di Bolivia ed Ecuador. Quando i costituenti, nel secondo dopoguerra, deliberarono che la paga di ciascun lavoratore  dovesse essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare … un’esistenza libera e dignitosa», in sostanza, stavano dando una veste normativa di principio a quello stesso concetto, che è, in ultima analisi, una insopprimibile e comune aspirazione dell’essere umano.

Sia in questo suo primo comma, sia nei due commi successivi, l’art. 36 definisce al meglio i contorni generali di quel principio lavoristico che permea l’intera Carta: quel diritto al lavoro, su cui si fonda la Repubblica (art. 1) e che viene riconosciuto a tutti i cittadini, promuovendone l’effettività (art. 4), non è e non vuole essere, insomma, un’astratta e vuota dichiarazione di principio. Questo diritto deve essere coerente innanzitutto col rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo e coi doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2). Questo diritto, soprattutto, non può mai essere tale se non è coerente e aderente al principio di eguaglianza formale e sostanziale, postulato nel ben noto art. 3 della Costituzione. Ed è proprio per coerenza con questo impianto concettuale di riferimento che il lavoro, ai sensi e per gli effetti dell’art. 36 Cost., deve essere pagato bene (comma 1), circoscritto in un tempo definito per legge (comma 2) e con una espressa e ineludibile garanzia del diritto al riposo e alle ferie (comma 3).

Retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e in ogni caso sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa; durata massima della giornata lavorativa stabilita per legge; diritto al riposo settimanale e a ferie retribuite e irrinunziabili: queste sono le coordinate di una nozione di diritto al lavoro che possa essere efficace strumento esistenziale di emancipazione.

Ma cosa accade se non si è in grado di lavorare, transitoriamente o stabilmente? Cosa accade insomma ai lavoratori, «in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria»? Il secondo comma dell’art. 38 Cost. chiude il cerchio, stabilendo appunto che a questi lavoratori debbano essere assicurati «mezzi adeguati alle loro esigenze di vita», coerentemente con il principio generale espresso, nel primo comma, secondo cui: «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Il sistema integrato di protezione sociale è quindi un progetto normativo che punta alla realizzazione del quadro costituzionale di riferimento, mirando in special modo all’effettività delle tutele offerte alla vastissima platea di chi lavora in condizioni di subordinazione, anche solo sostanziale.

Se è vero che «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto» (art. 4 Cost.), è necessario innanzitutto che il sistema normativo permetta a chi cerca lavoro di rifiutare ogni offerta che sia in manifesta contraddizione coi principi di cui all’art. 36 Cost. Ma non solo: ogni qual volta la violazione di questi principi si realizza nel corso di un rapporto di lavoro già avviato, la persona che si trova a lavorare come dipendente (anche solo sul piano sostanziale) deve avere la possibilità concreta di far valere i propri diritti costituzionali, senza essere condizionata dal ricatto occupazionale e dalla soggezione gerarchica.

Il sistema di protezione sociale deve essere quindi integrato proprio per poter garantire al meglio che queste finalità possano essere effettivamente realizzate: serve pertanto una legge sul salario minimo che estenda e generalizzi i livelli retributivi e le tutele offerte dalla più qualificata contrattazione collettiva di settore; ma serve anche una legge sul reddito minimo garantito e un sistema pubblico di formazione e inserimento (o reinserimento) lavorativo.

Si tratta insomma di un ambizioso programma di riforme sociali che vanno in una direzione opposta a quelle degli ultimi decenni: al centro del sistema non c’è più solo la libertà di impresa – che in ogni caso «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41 Cost.) – ma ci sono le persone che vengono usate da chi fa impresa per potersi ulteriormente arricchire, gestendo un giro di affari che il singolo imprenditore non potrebbe mai gestire da solo, ovvero senza far ricorso al lavoro altrui. A queste persone, in condizione di soggezione, va assicurata per legge l’effettività di quell’insieme di tutele che la Costituzione ha fissato chiaramente per far sì che il lavoro non sia mai più una schiavitù, ma possa, al contrario, permettere a tutti di vivere una esistenza libera e dignitosa.

La legge sul salario minimo rispetterà ovviamente l’autonomia delle organizzazioni sindacali – individuando e definendo però dei criteri efficaci per assicurare che queste siano realmente rappresentative – ma questa autonomia potrà essere utilizzata dai sindacati di categoria solo per migliorare (e mai per peggiorare) i livelli che la legge ha precedentemente esteso e generalizzato. Si mette in piedi cioè un meccanismo virtuoso per cui l’azione sindacale dei settori che hanno maggiore capacità rivendicativa riesce a raggiungere, di volta in volta, dei risultati che, in un tempo successivo, vengono poi estesi e generalizzati dalla legge. Ogni qual volta i sindacati non riescono a migliorare le condizioni retributive e di lavoro, interviene la legge, in funzione suppletiva, quantomeno per andare ad adeguare i livelli salariali agli inesorabili e continui aumenti dei prezzi che si susseguono nel corso del tempo. Non si capisce infatti perché i prezzi debbano essere liberi di salire ogni volta che è possibile, mentre i salari dovrebbero rimanere sempre compressi. Questa idea cioè che l’inflazione si debba gestire solo tenendo bassi i salari è chiaramente una idea politica che penalizza la maggioranza della popolazione che percepisce un salario (a vario titolo) nei confronti di quella minoranza che realizza utili vendendo i prodotti e i servizi che vengono concretamente realizzati dai salariati.

Nell’ottica della garanzia dell’effettività, però, è chiaro che sarà decisivo avere un settore pubblico che punta a combattere il ricatto occupazionale non solo fissando le regole e prevedendo le eventuali sanzioni per chi le viola, ma anche e soprattutto offrendo un’alternativa concreta a chi si trova a subire tale ricatto, sia in fase di assunzione che in corso di rapporto già avviato.

È questa la funzione sociale primaria di un reddito minimo garantito e di un sistema pubblico che gestisca (senza profitto) le cosiddette politiche attive del lavoro.

Avere dei centri pubblici per l’impiego, presso i quali, nel momento stesso in cui si fa domanda per incominciare (o ricominciare) a lavorare, si ha la certezza di ricevere immediatamente l’assegno mensile è ciò che, di fatto, finalmente neutralizza il ricatto occupazionale. Poi ovviamente si può discutere sul concreto ammontare dell’assegno e vincolarlo alla partecipazione dei beneficiari a un programma di formazione, ma questa formazione deve poi concludersi, entro un tempo definito, con uno sbocco lavorativo coerente con le capacità, le qualifiche e le concrete attitudini di ciascuna persona che viene presa in carico dal sistema. La formazione pubblica può essere rivolta prioritariamente alle imprese private virtuose che sono disposte ad assumere a condizioni compatibili con l’art. 36 Cost. Ma se le imprese private non garantiscono sbocchi verrà ovviamente rivolta all’inserimento nel settore pubblico sottodimensionato, dopo decenni di blocco del turnover, e da rilanciare massicciamente. Perché solo un’economia pubblica che fa da garante ai diritti dei lavoratori e da soggetto concorrente all’impresa privata può evitare che il lavoro divenga sfruttamento intensivo della manodopera altrui, con conseguente concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissime persone. Serve insomma avere un settore pubblico che sia largamente presente nell’economia del Paese, se si vuole avere una società del benessere diffuso.

Questo ambizioso programma di riforma sociale, giova ribadirlo, è perfettamente coerente con l’impianto costituzionale tuttora vigente e in particolare con i primi quattro articoli della Carta, con il Titolo III della Parte I (la c.d. Costituzione economica) e in special modo con gli artt. 36, 38 e 41 Cost. Non è obliterato dall’ordinamento comunitario, poiché le cessioni di sovranità coperte dall’art. 11 Cost devono risultare in ogni caso coerenti con «un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Ha infine la sua norma di chiusura nell’art. 53 Cost. che postula appunta il carattere progressivo del sistema tributario, ciò che risponde alla domanda: dove si trovano i fondi? Si trovano appunto, in primo luogo, facendo pagare più tasse ha chi ha maggiori entrate e soprattutto a chi ha ingenti patrimoni accumulati nel corso degli anni; con il che si recupera anche, in parte, quanto è stato da taluni precedentemente evaso. Si possono trovare, in seconda battuta, anche facendo deficit perché non è affatto detto che il deficit annuo si traduca automaticamente in un peggioramento del rapporto tra debito e PIL (sovente accade invece il contrario) e, quand’anche ci fosse una fase congiunturale di maggiore indebitamento, fin tanto che il sistema economico e sociale è in equilibrio questa scelta di politica economica rientra nell’esercizio delle libertà democratiche di qualunque comunità che si proponga, come sua finalità prioritaria, la realizzazione di equilibri generali di benessere diffuso.

Si tratta in sostanza di ricominciare a praticare quell’economia mista che rappresentava a tutti gli effetti l’impianto base del programma costituzionale, quale punto di sintesi equilibrata tra le tre culture fondatrici della Repubblica: quella di ispirazione marxista (socialisti e comunisti); quella di ispirazione cattolico-democratica e quella di ispirazione liberale.

Ora se un programma sociale ed economico di sintesi, riletto e attualizzato, appare ai più come una sorta di utopia rivoluzionaria, ciò è dovuto esclusivamente al fatto che, nel corso degli ultimi decenni, due delle tre culture politiche costituenti sono state di fatto annichilite dall’egemonia liberale. Questa ha ormai assunto il punto di vista aziendale come l’unico punto di vista possibile, fino al paradosso di arrivare a considerare lo Stato stesso come un’azienda, ignorando il dato di fatto elementare che la funzione sociale dell’azienda è fare profitti, mentre quella dello Stato dovrebbe essere attuativa della Costituzione (nel nostro caso repubblicana) quale patto fondativo della comunità.

Pur essendo, quindi, perfettamente consapevoli della disparità delle forze in campo e delle oggettive difficoltà che un programma di vasto rilancio del settore pubblico incontrerebbe, l’idea che sia il Reddito di Cittadinanza che il concetto stesso di reddito minimo, in tutte le sue possibili forme, rappresentino un tradimento dell’art. 3 Cost., sulla scorta di tutto quanto si è detto fin qui, ci pare dunque un’affermazione che risulta due volte sbagliata: da un lato perché attribuisce al RdC quella che è invece una caratteristica sistemica; dall’altro perché questa caratteristica sistemica non tradisce solo l’art. 3  ma tradisce, in realtà, tutto l’impianto costituzionale economico e sociale che è stato accantonato nella sostanza, pur rimanendo formalmente ancora in vigore, nel corso degli ultimi anni.

Concludendo, per quanto la normativa sul Reddito di Cittadinanza rappresenti letteralmente una goccia nel mare, se si considera tutto ciò che bisognerebbe fare per ridare dignità e tutele effettive alla maggioranza delle persone che lavorano in questo Paese, sotto varie forme di subordinazione, bisogna ammettere che essa ha rappresentato una prima timidissima inversione di tendenza, in materia di politiche del lavoro, rispetto al segno complessivo di riforme che tendevano sempre ad andare incontro ai desiderata delle parti datoriali piuttosto che alle esigenze di una forza lavoro resa sempre più povera e precaria.

Certamente sono poche le persone che grazie a questo sussidio sono riuscite a sottrarsi al ricatto occupazionale e sono persone per lo più poverissime, dato che la norma prevede un sussidio agganciato alla soglia di povertà che formalmente è di 780 euro ma che mediamente si traduce, per le condizionalità forti poste come limite di accesso per i beneficiari, in assegni mensili di circa 560 euro. E tuttavia anche questa piccola inversione di tendenza è considerata inaccettabile da chi è ormai abituato a un potere senza limiti. Basti pensare alla campagna mediatica martellante che va avanti da mesi per arrivare alla sua definitiva abolizione.

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Articolo di Giuseppe D’Elia, originariamente pubblicato su Transform! Italia

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